"Il vino è un valore reale che ci dà l'irreale"
Luigi Veronelli

venerdì 11 dicembre 2009

Vini "veri" e "terroirisme"

Dilaga ormai prepotente la moda dei vini "veri","VinNatur", vini “naturali” ed affini.
Sempre più appassionati osannano i produttori che lasciano agio alla natura di esprimersi compiutamente nei loro vini, intervenendo il meno possibile in cantina, spesso vinificando con lo stesso protocollo sia i bianchi sia i rossi, utilizzando vasi vinari di materiali “ancestrali", quali anfore di terracotta e simili, evitando sempre l'aggiunta di qualsiasi "additivo" (lieviti selezionati, tannini, enzimi, solforosa, ecc., ecc.), il controllo della temperatura in fase fermentativa, le filtrazioni e tutto ciò che possa essere considerato come un innopportuno e pernicioso intervento umano in un prodotto che deve essere il più possibile "naturale".
In questo modo, sostengono molti degustatori ed enoappassionati à la page, il vino riesce ad essere veramente specchio del terroir, un prodotto unico e fortemente legato al territorio d'origine.
Ora, tralasciando produttori profondi ed ispirati che hanno fatto del loro alternativo "essere vignaioli" un'autentica scelta di vita e filosofia e che meritano, quindi, profondo rispetto (un esempio per tutti è quello di Josko Gravner, i cui vini, non a caso, sono tra i pochi della "nouvelle vague" capaci di suscitare autentiche emozioni), tali pratiche enologiche (anche se, considerati i presupposti, per i puristi di tale approccio l'enologia in quanto “tecnica” dovrebbe essere totalmente bandita dai processi produttivi) hanno come risultato finale non già il vino, bensì, lasciando fare tutto alla "natura", irrimediabilmente l'aceto (e neanche di quello buono).
Detto questo, occorre ancora osservare come bollare di faziosa artificiosità l’intervento umano nella produzione del vino significhi in realtà mutilare il concetto di terroir di uno dei suoi elementi più importanti, ossia dell’imprescindibile esperienza e sensibilità umana, che è la sola in grado di dare un senso al tanto abusato e per molti versi vuoto concetto di “tipicità” (concetto eminentemente storico e dinamico, giammai statico ed astorico).
Vi è, poi, un ulteriore aspetto da considerare. Come si diceva, infatti, si vuole che il modo di fare vino “naturista” o “naturalista” che dir si voglia sia quello migliore per dare la più genuina espressione alle caratteristiche uniche ed irripetibili del territorio; considerato che la stragrande maggioranza di questi vini (soprattutto i bianchi) è segnata da processi ossidativi più o meno spinti e che questi si traducono in sensazioni olfattive ed aromatiche sempre identiche e derivanti da poche molecole (peraltro sempre le stesse, a prescindere dal vitigno - anzi, persino dal frutto - utilizzato, dal clima, dall’ambiente e dalla pedologia del territorio d’origine), bisognerebbe in definitiva concludere che non v’è nulla di più omologato e standardizzato dei vini “naturali”, ovvero di quelli che ambiscono a presentarsi come gli autentici campioni del “terroirisme”.
Ma queste sono solo farneticazioni o provocazioni, volutamente “estremizzate” e polemiche, di un povero Etil Elitista (sebbene in buona compagnia, visto che anche l'esimio professor Luigi Moio la pensa più o meno allo stesso modo) e, quindi, su questi temi è forse più opportuno aprire il dibattito tra i pochi che hanno la benevolenza di leggere queste pagine virtuali, per tradurle in qualcosa di più vivo e reale.
Fatevi sotto e dite la vostra!

venerdì 6 novembre 2009

Umile bevitore della Vigna del Cristo

Il lambrusco è forse il vitigno che vanta origine più diretta dalla vite selvatica, ovvero quella che i Romani – guarda un po’ – chiamavano labrusca e che poi, nei secoli, è stata domesticata dalla paziente opera dei vignaioli.
Ed infatti fa della selvatica e piacevole rusticità la sua caratteristica più evidente e “goduriosa”, un’autentico trionfo di atavica “sensorialità”.
Quello di Sorbara è, tra i sei cloni oggi coltivati (gli altri sono grasparossa, salamino, viadanese, Maestri e Marani), quello dal colore più scarico e dalla struttura più esile, ma insieme anche più fine e slanciata.
Non fa eccezione il Vigna del Cristo 2008 di Cavicchioli, che sfoggia una splendida veste rosa melagrana attraversata da brillanti sfumature corallo, da cui senza sforzo alcuno emergono netti ed intensi profumi di frutta fragrante, fragoline e ciliegie, avvolti da una deliziosa nota floreale, come di violaciocca. Sul palato è agile e freschissimo, reso croccante dall’acidità spigliata e da una carbonica che dona volume e brioso impatto ad una sensazione gustativa chiusa da un piacevole finale leggermente amaricante: stimolante e brillante, invoglia subito ad un nuovo sorso.
Un vino sincero, dalla beva facile e poco impegnativa, ma non per questo meno prodiga di genuino appagamento, che si propone come spontaneo ed economico compagno sulla nostra tavola quotidiana.
Da gustare accompagnato dai salumi e dall’ottimo Parmigiano Reggiano stagionato 24 mesi del Caseificio Gennari di Collecchio; oppure, per restare dalle mie parti, si può provarlo con una succulenta pasta e fagioli condita con olio d’oliva crudo (se volete possiamo aggiungere “extra vergine”, ma trattasi di inutile pleonasmo), magari con quello buonissimo che Piergiovanni Cristiano produce con la biancolilla alla Timpa dei Lupi di Corigliano, così verde e vegetale, profumato di erba appena sfalciata. Ancora meglio, poi, adesso che viene inverno, gustarlo con la ricchissima ed untuosissima cassoeula, celebrando un matrimonio eno-gastro-culturale davvero perfetto tra Emilia e Lombardia.
A proposito di cassoeula, tuttavia, dovete sapere come qui da noi sia ben radicata convinzione che quella migliore e più autentica debba essere preparata con verze raccolte da un gelido campo in una tersa notte invernale; soprattutto, però, le verze devono essere rubate…… ma non ditelo a nessuno!

Lambrusco di Sorbara Vigna del Cristo Doc 2008
Vitigno: lambrusco di Sorbara
Vinificazione: le uve, raccolte manualmente, vengono subito diraspate e macerate in piccole vasche a bassa temperatura. Fermentazione con aggiunta di lieviti selezionati e presa di spuma in autoclave con metodo Charmat a temperatura controllata.

Cavicchioli & Figli - Via Canaletto, 52 - San Prospero sulla Secchia (Modena)

lunedì 2 novembre 2009

Sete perenne

Vino, gagliardo come la dea ragione.
In te l’idea si fa suono e
si colora il Mito.
Appaiono vestali tinte di giada,
il periplo del canto si snoda in
veli che ricordano l’anima.
O vino che canti il mio dolore,
vino che sei il precipizio estremo,
vino che dai l’illusione della morte e
fai solo dormire
fino al nuovo dolore.

Alda Merini (1931-2009) - Almeno ora, per te, i Campi Elisi...

mercoledì 28 ottobre 2009

Avviso ai (due) naviganti


Rassicuro i miei due unici ed affezionati lettori (ovvero quel maledetto bolscevico dell'oste rosso - al quale perdono la sua eresia solo perché, in fondo in fondo, ha un che di "imperiale" - ed il calabro-saudita che in quel di Corigliano sta lavorando alacremente per produrre le clementine e l'olio che poi mi venderà con cospicuo sconto) che ancora non sono deceduto.

Il mio prolungato silenzio è dovuto al fatto che in questo periodo sto scrivendo molto "in conto terzi" e praticamente nulla "in proprio". Ma, tant'è, occorre pure lavorare per vivere. Sempre che mi paghino........

Non temiate, comunque, che tanto, prima o poi, torno a tediarvi con qualche sconclusionato racconto.

A presto!

martedì 28 luglio 2009

Sogno o son desto? Il Gewürztraminer di Andreas Baron Widmann

Quando mi capita di far visita ad Andreas Baron Widmann nella sua cantina o nello stand che condivide al Vinitaly con i suoi amici Peter Pliger, Ignaz Niedrist e Franz Gojer (i mirabolanti “quattro cavalieri dell’Apocalisse” della viticoltura sudtirolese), ogni volta mi colpiscono i suoi modi gentili ed educati, posati e misurati, che però lasciano intravedere, a stento trattenuta, una generosa passione per i suoi vini, le sue vigne e la sua terra; una passione che traspare dalla sua voglia di aggiungere sempre una parola in più per trovare la descrizione migliore del suo lavoro o per svelare un particolare per lui importante che gli sembrava di aver tralasciato o di non aver posto nella giusta luce.
Mi piace ascoltarlo nel suo italiano dall’inflessione molto “sudtirolese”, nel quale talvolta fatica un po’ ad esprimersi, ma mai con spregio o sufficienza (atteggiamento che, a mio personalissimo modo di vedere, potrebbe legittimamente adottare, così come dovrebbe essere lecito a qualsiasi rappresentante di un popolo invaso di fronte al suo invasore; ma questa è un’altra storia…).
I suoi vini, gli ottimi rossi e gli affascinanti bianchi, sono ormai da diversi anni apprezzati per la loro squisita ed elegante fattura; analogamente al carattere di Andreas, non si pongono mai sopra le righe, ma colpiscono semmai per la grande confidenza che riescono a creare con chi li beve, discorrendo amabilmente e rivelandosi pian piano, con i tempi giusti: subito ti mettono a tuo agio, mostrandosi aperti e quasi facili, ma in realtà non svelano immediatamente tutta la loro personalità, divenendo poi irrimediabilmente muti, ma instaurano un dialogo lungo, fitto, profondo ed articolato.
C’è, però, a proposito di Baron Widmann, una singolarità che proprio non mi riesco a spiegare e che rappresenta per me, fervente cultore dell’enoica cultura sudtirolese, una sorta di cruccio irrisolto.
Tra i vini di Andreas, infatti, forse quello che da sempre mi colpisce maggiormente per la sua incredibile costanza annata dopo annata è il Gewürztraminer, che a mio modestissimo parere si inserisce di diritto tra le migliori interpretazioni sudtirolesi di questa varietà, che proprio del Sudtirol si vuole autoctona.
Troppo spesso, tuttavia, mi ritrovo solitario in questo elogio: tutti parlano – certo con buone motivazioni – del Nussbaumer di Tramin, o dell’eccellente Kolbenhof di Hofstätter, o ancora del Campaner di Kellerei Kaltern, o del sempre di moda Sanct Valentin di Kellerei St. Michael-Eppan, o, a turno, di qualche altro ancora; ma quasi mai mi capita di ascoltare o leggere qualcuno, sia esso addetto ai lavori, critico-degustatore o semplice appassionato, che tessa le lodi del fantastico Gewürztraminer di Baron Widmann.
Eppure l’ho provato e riprovato, certo che il motivo della mia smisurata predilezione fosse sicuramente da ricercare nelle mie maldestre doti di assaggiatore; ma nonostante i miei sforzi di trovarvi qualche pecca, qualche difetto seppur lieve che mi convinca a declassarlo dall’empireo dei Gewürztraminer sudtirolesi, ogni volta immancabilmente esco dalla degustazione sempre più convinto dell’eccezionalità di questo vino.
Il Gewürztraminer è cosa difficile, perché vive di elementi contrastanti che, se non vengono dosati con maestria, rischiano di dare vita ad un insieme decisamente ostico: le carezzevoli note di rosa, segno distintivo dell’aromaticità del vitigno e motivo principale dell’immediato appeal che esso è in grado di suscitare, si accompagnano, infatti ad una naturale tendenza varietale a sviluppare un elevato quantitativo di zuccheri e, per contro, una bassa acidità, che rischiano di tradursi in vini eccessivamente alcolici e non temperati da opportune doti di freschezza. La spiccata impronta aromatica, inoltre, tende a risultare francamente amara se non supportata da un’opportuna dolcezza; per questo diversi produttori decidono di lasciare un leggero residuo zuccherino nei loro vini, che però, se non è ben dosato, può facilmente mostrarsi fastidiosamente stucchevole.
Ci vuole, quindi, grande equilibrio e sensibilità, in vigna come in cantina, per produrre Gewürztraminer capaci di impressionare e di lasciare un segno indelebile nella memoria sensoriale di chi li assaggia ed Andreas Baron Widmann, nella mia senz’altro modesta esperienza, mi sembra in questo senso un vignaiolo assai “memorabile”.
Per capirci meglio, passiamo in rassegna solo le ultime tre annate che ho avuto la fortuna di assaporare, ovvero 2005, 2006 e 2007 (ma non intendo tacere di un superbo 2002, il cui ricordo si è stampato imperituro sui miei sensi). Si tratta di tre millesimi piuttosto diversi tra loro, più fresco e piovoso il 2005, equilibrato ed ottimale il 2006, più caldo e siccitoso il 2007. Eppure il Gewürztraminer di Baron Widmann non sembra aver patito gli elementi negativi, né aver voluto esagerare nello sfruttare quelli positivi.
Pur con le dovute e irrinunciabili differenze (pena la banalità del risultato), la costante in tutte le tre annate è stata l’armonia, la proporzione: il vino non ha mai rinunciato alla grassezza, alla ricchezza, persino alla sontuosità che, a mio parere, un Gewürztraminer degno di questo nome deve necessariamente avere, ma sempre accompagnandole con la freschezza di un’acidità guizzante ed esaltata da una mineralità finissima e precisa. Nel freddo 2005 Andreas è riuscito a non scadere nell’eccessiva magrezza del frutto, la cui polposa maturità ha fornito la dolcezza necessaria a temperare la nota amarognola finale, ammantata da una sensazione glicerica di notevole rotondità e spessore; nel caldo 2007 ha ottimamente mitigato la calorosa spinta del frutto maturissimo, reso ancor più “cocente” da una gradazione alcolica di notevole impatto, con uno spunto di mineralità così sapido da risultare quasi salato e con fragrantissimi accenni vegetali, quasi di mentuccia; nel 2006, annata credo esemplare per tutti i bianchi del nord-est, ha dato agio alla natura di esprimere tutta la sua generosità, regalandoci un vino dalla finezza ed eleganza esemplari, con una deliziosa e morbida nota di rosa sostenuta da un frutto di piena ed integra maturità, carezzato dalla densa sensazione di glicerina e da un velo di spezie raffinatissime cui l’acidità fresca e fragrante ed ancora il nitido tocco minerale paiono aver impresso un sigillo di perfezione.
Ecco, credo che il Gewürztraminer di Baron Widmann sia uno dei massimi esempi qualitativi che tale vitigno riesce a mostrare nel Sudtirol, un vino per i pochi eletti che abbiano la pazienza di lasciar che si racconti, aspettando magari qualche anno perché possa raggiungere la sua splendida maturità (è, infatti, vino di notevole longevità); per i pochi affezionati che, per una volta, non si lascino sviare dalla smania dell’abbinamento ad ogni costo, ma permettano a questo delizioso nettare di esibirsi da superbo solista, come solo i grandi sanno davvero fare.
Non posso, quindi, che rivolgere per l’ennesima volta i miei complimenti ad Andreas Baron Widmann ed al suo fantastico Gewürztraminer, senza essere riuscito, nemmeno questa volta, a comprendere se sono io a lasciarmi ingenuamente abbagliare dalle dorate sfumature di questo splendido vino o se, invece, non siano ancora in troppi ad usare lenti da sole esageratamente oscurate ed oscuranti.

Sudtiroler Gewürztraminer Doc 2005-2006-2007
Vitigno: gewürztraminer
Vinificazione: fermentazione alcolica e affinamento in botti di legno
Baron Widmann – Endergasse, 3 – Kurtatsch (Bozen)

lunedì 6 luglio 2009

Come una sera la pioggia al tramonto: Les Crêtes e il Petite Arvine

Sai com'è la pioggia di sera?
Quando il cielo torna sereno e si tinge di rosa e d'azzurro, poi piano diventa sempre più blu, sempre più intenso e si getta in una notte freschissima salata di stelle, profumata di fiori e d'erbe bagnate?Quando il temporale - dico - il temporale di una serata estiva lava il caldo, scioglie l'afa e regala la fragranza che non sapevi più?
Sono piccoli momenti di letizia, che talvolta concede la vita; se ancora hai occhi, orecchi o pelle per lasciarli scorrere.

Vallée d'Aoste Petite Arvine Vigne Champorette Doc 2007
Vitigno: petite arvine
Vinificazione: pressatura soffice delle uve e vinificazione in acciaio a temperatura controllata.
Les Crêtes - Località Villetos, 50 - Aymavilles (Aosta)

venerdì 29 maggio 2009

Quando parla il vino

Il vino parla per chi vuol farlo parlare.

Il vino ha “un milione di voci. Scioglie la lingua, svela segreti”.(1)

Perché il vino parla con chi vuol farlo parlare; parla solo con la voce di chi lo fa parlare.

Non pensiate che sia sufficiente infilarci il naso dentro perché il vino cominci a raccontare qualcosa. Se non saremo noi a farlo parlare, resterà muto e senza nulla da dire.

Il vino parla gli stessi incanti del mondo; parla i fiori e i frutti, gli animali e i vegetali. Il vino parla le rocce, pietra o terra che siano; parla il mare ed il sole, il gesso ed il sale; descrive le rudi durezze, le stimolanti freschezze, le piccanti eccitazioni e le sete morbide e seducenti.

Il segreto sta tutto nel dargli la voce, perché da sé solo non saprebbe in che lingua esprimersi.

Non c’è poesia nel vino senza un animo che la declami, perché non c’è poesia senza umana passione.
Il vino è come il mondo, che senza gli occhi dell’uomo sarebbe un inutile e silente globo. Sarebbe semplicemente il nulla, perché il suo senso e la bellezza stanno nella sua interpretazione.

E il vino più bello, quello che più di ogni altro ci entra nel cuore, è il vino capace, se lo facciamo parlare, di svelare il cosmo del suo produttore: quella minuscola lettura del mondo, unica e originale, che si leva dai riflessi e dai profumi di un calice per lasciarsi comprendere e, forse, ammirare.

Tutto questo, però, avverrà solamente se vorremo raccontarlo. Per farcelo raccontare.

(1) - Joanne Harris – Vino, patate e mele rosse – Garzanti

venerdì 24 aprile 2009

Morato, antica poesia laziale

Vi sono vini esclusivi nella loro originalissima e singolare personalità, che colpiscono per il carattere davvero insolito, unico, capace di regalare sensazioni dall’espressività o dall’intensità mai sentite altrove. Spesso si tratta di vini che provengono da aree insospettate, poco nominate nei “salotti” enoici che contano perché obiettivamente un po’ avare nel produrre con costanza vini di qualità eccellente. Eppure capita talvolta di imbattersi in fortunate eccezioni, vini in qualche caso non stilisticamente ineccepibili, forse privi di “infiocchettata” raffinatezza, ma capaci di emozionare, di smuovere qualcosa nello spirito, di irretire con una suggestione a cui è difficile sfuggire; eccezioni, insomma, che divengono regole di umana poetica.

V’è nel Lazio un produttore del quale troppo poco si sente parlare. Strade Vigne del Sole è, infatti, un nome che, insieme a quelli del cavalier Antonio e del figlio Alessandro Cugini, probabilmente non dice molto a chi è poco avvezzo con le cose del vino. La famiglia Cugini, però, coltiva le proprie viti almeno dai primi anni del XVIII secolo, una tradizione ben radicata sulle colline intorno a Grottaferrata, che si è tramandata di generazione in generazione fino ai nostri giorni.
Antonio Cugini, in particolare, è ben più di un vignaiolo; può esser definito “la memoria storica vivente” della viticoltura di questa zona, alla quale ha dedicato una sorta di “autobiografia bucolica” dal sintomatico titolo Vitae di un vignarolo, sull’onda dei ricordi di una vita e di un mondo ormai in gran parte perduto, ma del quale forse qualche sfumatura sopravvive, trovando rinnovato smalto nella nutrita schiera di rari vitigni che il cavalier Cugini ha conservato e preservato nei suoi vigneti.
Una sera a cena m’è capitato di imbattermi proprio in uno di questi, il tor de’ passeri(1), splendidamente rappresentato nel Morato Lazio Rosso dell’annata 2002. Si tratta di un antico vitigno laziale la cui riscoperta e valorizzazione è a buon diritto rivendicata proprio da Antonio Cugini, che ne racconta inoltre la storia nel suo libro.
Sembra che un tempo fosse particolarmente diffuso in alcuni vigneti posti nei dintorni di Marino nei pressi di una duecentesca torre chiamata Tor de’ Passeri. I terreni circostanti sarebbero stati suddivisi nel 1571 tra i reduci della battaglia di Lepanto da Marcantonio Colonna, come ricompensa per il valore mostrato in occasione dell’epico scontro navale che consentì verosimilmente all’Occidente di conservare intatta la propria identità per qualche secolo ancora. Antonio ha recuperato un tralcio di quest’antica uva, unico superstite dei soli cinque filari un tempo accuditi da suo padre che ne otteneva appena 500 litri di vino.
Varietà dal grappolo piuttosto corto, tondo e spalluto, con acino di media grandezza, bluastro, caratterizzata da maturazione abbastanza precoce, secondo Cugini il tor de’ passeri sarebbe a tutti gli effetti un vitigno autoctono della zona, a dispetto di quanti sostengono provenga invece dall’omonima località abruzzese.
In effetti per quanto ne so, o meglio per quanto ho appreso da alcune letture, il vitigno abruzzese originario di Torre de’ Passeri (o della conca Peligna) sarebbe piuttosto il montepulciano, uva un tempo confusa con il sangiovese, il quale a sua volta era in qualche caso confuso con il vitigno riscoperto da Cugini; insomma, potrebbe trattarsi dell’ennesimo circolo vizioso di omonimie e sinonimie che imperversa nelle italiche vicende enoiche.
Difficile, però, confondersi circa la reale identità del tor de’ passeri laziale non appena si infila il naso nel calice e se ne inspirano gli inconsueti profumi.
Da un vino dal colore rosso granata, con unghia lievemente aranciata, subito sgorgano nette ed insolite sensazioni di mandarino, presto incalzate da un sentore di idrocarburi che, forse un po’ fanciullescamente, mi piace chiamare “nafta nobile”, davvero molto intrigante, preziosamente fuso con un tocco di foglia d’alloro calda di sole ed adagiato su un fondo di more mature e dolcissime; in bocca ritorna il frutto di buona consistenza, insaporito da una speziatura ben pronunciata che punzecchia il palato ed avvolto da aromi di tabacco conciato e pellame; i tannini, ben evidenti ed appena amarognoli, mostrano discreta fittezza e si accompagnano ad un vezzo balsamico che si intreccia ad un ritorno idrocarburico in un finale dalla persistenza lunga e cangiante, di nuovo arricchita da suggestioni fruttate, di menta e di liquirizia.
Un vino ricco, complesso, con tanti e diversi argomenti da raccontare.

Forse a qualcuno potrebbe apparire carente di un pizzico di levigata eleganza; per quanto mi riguarda, è sicuramente riuscito a rapirmi con la profondità di una poesia antica: quella della terra, della sua storia e degli uomini che ancora continuano a rinnovarla.

(1) - Adotto la convenzione e consuetudine “veronelliana” di scrivere il nome dei vitigni con la lettera minuscola e quello dei vini, che ne sono l’espressione compiuta, con la maiuscola.


Morato Lazio Rosso Igt 2002
Vitigno: tor de’ passeri
Vinificazione: pigiatura soffice delle uve e fermentazione a temperatura controllata di 23°C per circa un mese, con rimontaggi continui; elevazione in legno per 48 mesi.

Azienda Strade Vigne del Sole – Via di Campovecchio, 45 – Località Valle Marciana – Grottaferrata (Roma)

martedì 17 marzo 2009

Da cosa partire?

L’ennesimo blog enoico.
Da tempo ci meditavo, senza riuscire a cogliere un valido motivo per lanciarmi in questa avventura.
Non che ora lo abbia realmente trovato, ma forse la mia impasse era dovuta al fatto che mi ponevo la domanda sbagliata.
Mi chiedevo, infatti, chi mai potesse aver voglia di leggere un altro foglio pieno zeppo di sciocchezze intorno ad un calice di vino.
Ebbene, compiendo una sorta di kantiana “rivoluzione copernicana”, alla fine ho compreso come il problema non stia tanto in “chi avrà voglia di leggere”, bensì in “cosa avrò voglia di scrivere”.
Un blog, è naturale, si scrive con l’ambizione che venga letto da qualcuno. Per una volta, però, mi piacerebbe creare una specie di villaggio sperduto in una terra della quale non è ancora stata tracciata la mappa; smarrirvi qualche messaggio e poi stare a guardare se, per sbaglio o per ventura, qualcuno ci si imbatterà.
Lo stimolo alla scrittura nasce, in fondo, da un’esigenza interiore, dalla necessità di confrontarsi con se stessi, con i propri pensieri e le proprie convinzioni; quella, ancora, di mettere a fuoco le proprie capacità, le attitudini, le idee, le ansie, le certezze, i dubbi.
Per poi – chi può dirlo? – riuscire, infine, a dialogare con “l’altro da sé”, con l’eventuale lettore che si dovesse scontrare con queste pagine lasciandovi un briciolo della sua ricchezza.
Senza, tuttavia, andarne in cerca; solo lasciando al caso il compito di scovare le affini elettività.

Ho scelto il vino perché, con la profonda valenza materiale e simbolica che ha rivestito nella nostra civilità, esso è forse l’elemento che meglio può fornire una base di partenza, un substrato condiviso sul quale costruire sensazioni che abbiano una comune oggettività.
Non è così con la poesia, con la letteratura, con l’arte; meravigliose invenzioni dell’umana spiritualità, esse sono purtroppo destinate ad una sorta di incomunicabilità di fondo, a restare in qualche modo chiuse in se stesse, raccolte nell’animo dell’autore, mentre chi ne legge o osserva l’opera può solo ancorarsi ad una flebile suggestione per poi incamminarsi verso percorsi interpretativi tutt'affatto personali.
Col vino non è così; esso è un elemento insieme terragno e spirituale, ciò che meglio riesce a richiamare gli atavici e comuni istinti che legano l’uomo alle sue radici, a quella Terra che, fecondata dal sole, si mostra come l’unico elemento capace di offrirgli una tangibile ragione del suo esistere.
Il vino è, insomma, simile ad una madeleine proustiana, ma dalla valenza “corale” più che individuale; pur nella diversità delle percezioni riguardo ai suoi caratteri, riesce comunque a creare un terreno, una matrice, un’atmosfera comune nella quale tutti possiamo riconoscerci, trovandovi una concreta possibilità di appagare quell’ansia di infinito che forse è solo il più essenziale dei nostri istinti.

Oppure, più semplicemente, mi sto come sempre illudendo che tutto questo abbia un senso; che in tutto questo possa non sentirmi solo.